Barriere – Fences: la recensione, il recinto dell’Oscar per Denzel Washington e Viola Davis
23/02/2017 di Redazione
Seconda regia per Denzel Washington con Barriere -Fences adattamento dell’opera teatrale del 1983 di August Wilson vincitore del premio Pulitzer.
Denzel Washington alla sua seconda regia con Barriere- Fences, punta decisamente sul sicuro realizzando anche il desiderio di August Wilson (morto nel 2005) accreditato per la sceneggiatura, di portare sullo schermo l’opera che già gli era valsa al teatro nel 2010 sempre a fianco di Viola Davis il prestigioso Tony Awards.
Di conseguenza era praticamente inevitabile la candidatura per entrambi agli Oscar, e per Denzel Washington dopo il successo ottenuto nel 2010 si è trattato solo di preparare la produzione. La storia ci parla di Troy Maxson impiegato della nettezza urbana nella Pittsburgh degli anni’50, campione di baseball che non potè mai giungere alla major league, perchè nero e dei suoi legami familiari. La sceneggiatura è de facto parola per parola la pièce teatrale al cinema nella sua interezza e nella sua ambientazione. Nella pellicola vedremo solo la casa di Maxson e il suo giardino nel retro dove lui deve realizzare un recinto, o meglio una staccionata per fare contenta sua moglie, che lo sopporta amabilmente con i suo lunghi discorsi del fine settimana dedicati a bere con il suo compagno di lavoro, e a prendersi cura del figlio Cory , che sogna di entrare in una squadra di football. In breve le tensioni familiari porteranno all’emersione di drammatici problemi, rimarcando quelli razziali solo marginalmente nell’America dei primi anni’50. Lo scontro generazionale tra il il figliastro e il padre, che ritiene per lui impossibile, come era successo a lui di poter in futuro giocare in una squadra di football, perché nero, le aspirazioni personali deluse per Troy diventano nel film una serie di allegorie e dinamiche sociali della società afroamericana dell’epoca che ancora oggi risultano attuali nell’America che non ha mai superato la guerra civile e che vede ancor oggi un duro scontro su altri livelli da parte degli afroamericani nei confronti della parte bianca, acuiti dalle differenze sociali ed economiche che ancora oggi non sono state colmate, nonostante la ricchezza del paese.
Il compito svolto egregiamente dal regista e protagonista Denzel Washington di portare sul grande schermo questa opera teatrale, che con un fianco un vero proprio monumento vivente della recitazione come Viola Davis (Rose Maxson), realizza il sogno dell’opera scritta da Vilson. Se possiamo muovere una critica, questa potrebbe essere solo la scelta di realizzare de facto un film teatrale, pochi movimenti macchina una sola ambientazione, dove in realtà dialogo e recitazione emergono in modo prepotente, e forse se questo potrebbe sembrare un limite per il nostro recinto, Denzel Washington per contro permette al pubblico di tutto il mondo di entrarvi grazie alla forza delle immagini cinematografiche e alle capacità recitative. Un perfetto connubio tra cinema e teatro che porta lo spettatore dentro la storia, ed in questo caso consigliamo la visione in lingua originale, visto che nonostante la bravura dei nostri doppiatori, si perde tutto il lavoro fatto proprio sul linguaggio e gli accenti da parte degli attori.
Racchiudere tutta una storia all’interno di un piccolo spazio di apparente tranquillità familiare che invece nasconde terribili segreti e devastanti scontri generazionali permette a tutti di scavalcare quel recinto e di farci immergere nella storia di Troy Maxson. A molti amanti di un certo tipo di cinema potrà sembrare forse troppo lungo, verboso, teatrale, ma alla fine uscendo dal buio della sala difficilmente potrete dimenticare la storia di Troy e Rose Maxson e l’incredibile prova attoriale dei suoi protagonisti, che premi a parte, ci faranno sempre pensare a quel recinto che tutti noi costruiamo nella nostra vita e che ci limita per sempre.
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